Mi sento molto onorato di essere qui fra voi questa mattina, benché non abbia titoli scientifici per parlare di educazione e pedagogia. Sono contento di parlare di mio padre, un uomo al quale devo gran parte di quello che sono, non solo da un punto di vista affettivo, ma anche da un punto di vista intellettuale. Avrebbe dovuto esserci mio padre che sicuramente sarebbe stato in grado, come sapeva fare con grande maestria e competenza, di entrare nel merito del discorso pedagogico, mettendo in luce la molteplicità delle problematiche che interessano l’educazione dell’oggi, ma riuscendo a scorgere anche il positivo, le potenzialità e i tanti elementi che ci fanno sperare, come i tanti insegnati, maestri ed educatori che ogni giorno lottano fra i banchi e fuori per un mondo più giusto e più umano. Tuttavia oggi ci sono io perché il mio babbo un mese e mezzo fa se n’è andato improvvisamente e in pochi secondi, prendendo con energia la morte in un colpo solo. In fondo ha affrontato la morte in coerenza con il suo stile, come ha fatto con la sua esistenza terrena, sempre in trincea e sul fronte, senza mai rinunciare a vivere con pienezza e intensità tutti gli eventi della sua vita lavorativa e non. Non ha mai sprecato un solo istante della sua vita; una vita spesa per l’edificazione del bene comune, che partiva proprio dall’educazione, ambito spesso misconosciuto e dimenticato al giorno d’oggi.

Percepisco la presenza di mio padre e sono certo che è orgoglioso di tutte queste manifestazioni e celebrazioni in suo ricordo, benché fosse un uomo timido e a tratti anche schivo. A lui non è mai interessato il successo della sua persona, ma aveva a cuore che le sue idee di giustizia, uguaglianza e libertà, che poi sono la rielaborazione profondamente personale del pensiero dei grandi maestri come Rousseau, Itard, Pestalozzi e Vygotskij, fossero diffuse in tutti gli angoli della terra, soprattutto laddove c’è marginalità, oppressione e ingiustizia, per costruire un mondo nuovo, basato sulla costruzione di un nuovo umanesimo tra gli uomini e le donne.

Era convinto che la libertà, interpretata come sganciata dai due principi di giustizia e uguaglianza avesse originato il liberismo economico e sociale, di cui oggi purtroppo anche la scuola ne sta pagando conseguenze amare.

Era convinto che la base per cambiare questa società fosse l’educazione, e per questa si è speso oltre se stesso come padre, nonno e professore universitario.  Infatti, era molto attento alle tematiche educative, soprattutto al rapporto con la disabilità per la quale nutriva un amore speciale. La disabilità è un ambito particolare della pedagogia che mio padre ha sempre ritenuto centrale per comprendere lo stato della nostra umanità e disumanità allo stesso tempo. Infatti, era convinto che l’essere umano, in quanto umano è capace di essere anche profondamente disumano. E questa contraddizione immane  ha portato l’essere umano a classificare, dividere e scegliere i migliori, i più belli e i più sani, i più competitivi, in una lotta per la sopravvivenza, marginalizzando tutti quelli che non sono utili al funzionamento della società dell’apparenza e del narcisismo.

I disabili, ancora oggi, a parte sguardi più o meno compassionevoli, sono ritenuti scomodi e problematici. Infatti, in moltissimi incontri si fa leva sui problemi che hanno nella vita, ma non si centra mai l’attenzione sulle loro reali possibilità e sui talenti di cui sono portatori. Allo stesso modo, oggi nelle scuole imperversa uno sguardo diagnostico a tratti inquietante. La scuola è vista come un erogatore di servizi, dove gli insegnanti hanno il compito di formare gli studenti, promuovendo chi impara e bocciando chi non impara, costretti nei margini di una programmazione meticolosa e interminabile di formalismi burocratici infiniti. I genitori, invece sono i garanti del funzionamento di questo erogatore di servizi. Se c’è un malfunzionamento, i primi responsabili sono gli insegnanti, verso i quali si riversano il più delle volte le proteste dei genitori scontenti dei servizi erogati. Per rispondere alle proteste dei genitori, l’unica arma dell’insegnante è il conforto diagnostico. Se un bambino è turbolento diventa un iperattivo, se un bambino non riesce a imparare a scrivere diventa affetto da discalcolia, se un bambino non sa leggere è dislessico, e così via. Pertanto l’insegnante e il genitore delegando l’autorevolezza del proprio mandato di educatori si affidano ai medici, sperando di risolvere il problema che accontenti tutti con una diagnosi che certifichi che il bambino o l’adolescente sia limitato. La giustificazione di questo atteggiamento è pericolosissimo, perché così facendo si smantella non soltanto l’istituzione scolastica e l’autorevolezza degli insegnanti, il cui primo compito è quello di educare e non di formare, lasciando ai margini il bambino che diventa un oggetto nelle mani di una società che lascia indietro i più deboli e non lascia scampo a chi ha tempi diversi di maturazione. Ma la sfida di oggi è l’educazione che rappresenta la possibilità per riaffermare la profonda capacità dell’essere umano di essere appunto Umano. Una sfida forse utopica, ma possibile. Per mio padre

l’educazione lavora con il possibile e non con l’impossibile, anche se sa far nascere l’impossibile.

Il fatto di educare non è un processo scontato, l’educatore deve mettere al centro della sua azione educativa il bambino, sforzandosi di guardare le cose del mondo e della vita dalla prospettiva del bambino, che non è un adulto in miniatura, ma un essere profondamente diverso. Per fare questo bisogna tenere conto del mondo interiore del bambino, che non è quello degli adulti. La società di oggi parla tanto dei bambini, ma vorrebbe degli adulti in miniatura che comprendano e seguano la velocità e la rapidità della società consumistica degli adulti e delle loro scelte. Invece, quello del bambino è un mondo fatto di fantastico intriso con il  reale, è un mondo dove il sogno è centrale e tutto sembra avere dimensioni più grandi di quelle che sono.  La sfida di oggi è puntare sulla capacità creativa dei bambini ad avere sogni e a parlarne con vive aspettative, facendo sì che l’educatore possa leggere e meditare i loro sogni per permettere al bambino di riflettere. Sì, è fondamentale, in un tempo del tutto e subito, porre in essere sul bambino la capacità del saper aspettare. E questo lo possono fare solo le figure di Adulti che non dicono al bambino dei sì o dei no sbrigativi, che spesso lasciano ai margini l’azione educativa, in favore di interessi strettamente personali, ma consentano al bambino di riflettere in un’attesa che diventa educativa. L’educatore per fare ciò deve porre al centro della propria azione il processo qualitativo, e per processo qualitativo intendo non una proposta spasmodica e infinita di azioni, messaggi o contenuti  per tenere fede a direttive e format prestabiliti (e qui faccio riferimento al didatticismo e alla smania di programmazione a tutti i costi che oggi purtroppo imperversa nel mondo della scuola, a cominciare dalla scuola d’infanzia e che rischia di dimenticare il bambino, il suo reale processo di crescita e i suoi bisogni effettivi, o all’invasione dei supporti tecnologici che vengono dati ai bambini come sedativo), quanto soprattutto nel creare spazi e momenti per il bambino qualitativamente elevati, dove il bambino diventi il centro dell’azione educativa. Su questa educazione nuova, come la definiva mio padre, il punto di riferimento è Jean-Jacques Rousseau, che nell’opera L’Emilio, per la prima volta sposta la prospettiva sul bambino, sulle sue esigenze, sui suoi interessi reali, e non sull’educatore, che invece ascolta il bambino e lo osserva, favorendo lo sviluppo di tutte le sue facoltà e potenzialità . Come dice mio padre

Rousseau mette in discussione ogni concezione adulto centrica dell’educazione, il bambino è un bambino e non un piccolo adulto, quindi i metodi educativi devono essere adatti alla sua diversità.

Oggi purtroppo questo avviene molto raramente, in quanto di fronte al dilagante consumismo materiale ed etico diffuso, che mio padre e Philippe Meirieu definiscono capitalismo pulsionale, secondo il quale il bambino è stimolato continuamente a volere e a consumare velocemente oggetti e relazioni, e non ha più tempo per riflettere e creare, assumendosi il rischio di fare qualcosa. Sempre citando mio padre,

per Rousseau, ma anche per noi oggi, la scuola deve educare l’uomo e il cittadino a vivere con i suoi simili sapendo che questi sono diversi. Senza questo riconoscimento delle differenze non ci può essere uguaglianza di tutti i bambini di fronte all’istruzione. La negazione delle differenze, in nome della difesa di una presunta tradizione nazionale non può che produrre discriminazione e diseguaglianze e distruggere, in questo modo i fondamenti democratici della scuola della Repubblica.

Oggi c’è una grande emergenza educativa che è legata anzitutto alla figura dei genitori. Spesso sono deboli, e pur di non voler cambiare il loro stile di vita, fatto di tensione alla comodità, al tempo libero, alla tecnologia e alla tranquillità, offrono ai bambini (considerati nella loro naturale indole esplosiva, un intralcio), quello che mio padre definiva strumenti di morte (esasperazione della tecnologia) che sembrano tenere il bambino sotto controllo, ma lo fanno implodere, creando quella infinita serie di situazioni problematiche che oggi vengono il più delle volte diagnosticate. Educare è un atto difficile ma soprattutto impegnativo. Richiede tempo, quel tempo che la società della rapidità di oggi ci vuole togliere a tutti i costi attraverso diversivi che ci stanno portando rapidamente sul terreno della disumanizzazione. Un esempio di questa perdita della coscienza educativa è data dal fatto che la genitorialità oggi si è spostata in età molto, molto matura, e questo non solo per un problema legato alla stabilità lavorativa, ma anche al fatto che il concepimento di una nuova vita viene interpretata come la realizzazione di un desiderio. Il bambino diventa oggetto di desiderio e in quanto tale nasce in un contesto dove tutto deve essere perfetto. Anche il bambino deve essere perfetto, altrimenti diventa subito un ostacolo, perché il mondo nel quale deve nascere è un mondo che vuole sembrare a tutti costi perfetto, anche se poi così non è.  Non si ama un bambino perché è nato, ma perché lo si è desiderato. Quindi è quasi un giocattolo che arriva quando la vita di coppia raggiunge un’età di assestamento delle passioni di vita e delle possibilità di evasione. L’azione educativa si nutre invece di tutto ciò che è imperfetto e nasce spesso da un contesto imprevisto, inatteso. Ma fa leva sul singolo, considerando ogni essere umano come unico e irripetibile. E allora la sfida dell’educare oggi è utopica perché gli elementi che approssimativamente ho cercato di mettere in ordine sono per la società di oggi irrealizzabili, perché bisognerebbe mettere al centro la persona e non gli interessi economici, sociali e utilitaristici. Ma è una sfida concreta, perché ci sono piste che tanti educatori, in controtendenza rispetto all’attuale e preoccupante situazione, hanno cercato di tracciare pure con molta fatica. E uno di questi è mio padre, che si è speso fino all’ultimo per ribadire che ogni essere umano è uguale all’altro in termini di possibilità, capacità e responsabilità, ma che tutti siamo diversi per interessi e per cultura. L’incontro della diversità in un mondo fondato sull’uguaglianza di tutti, anche nei rapporti tra il mondo maschile e femminile, crea una società nuova, che vede nell’azione dell’educare il suo trionfo. Mi piace concludere con le parole di mio padre sul senso più nobile della vita:

Vivere la vita; una espressione che sembra una ovvietà, vivere la vita, godersela il più possibile.

Eppure si vede tanta gente scontenta, infelice che la vivono e se la godono in modo sfrenato ; la questione torna sempre quella enunciata da Socrate sul senso della vita : in fondo una preparazione alla morte. Attenti , dire una preparazione alla morte non significa  avere una concezione cupa della vita; la vita purtroppo o per fortuna, chi sa, è anche la morte, la malattia, il dolore fisico, la sofferenza psichica, le tante storture di un cammino che spesso ci porta su dei sentieri inaspettati e parecchio dolorosi. La vita è un fatto biologico di crescita e decrescita progressiva a livello cellulare; dopo un po’ il nostro corpo, che non è un’altra cosa rispetto a noi, invecchia ed elimina più cellule che non ne produca. Una cosa che il nostro mondo accetta difficilmente, una cosa che la stessa medicina agita come accanimento sul corpo e tenta di rallentare per arrivare addirittura ad una specie di mistica biologica dell’eternità. Il problema è che la tecnologia riesce a controllare la natura fino ad un certo punto; quest’ultima si ribella molto e fa subire della sconfitte piuttosto pesanti alla scienza medica con le sue pretese taumaturgiche. Il medico e la medicina continuano nonostante tutto ad avere una aureola di onniscienza ; la tecnica medica in quanto può guarire è dotata di alcuni attributi che la rendono simile ad una forma di magia. Tuttavia questa nuova mistica bio – medica presenta dei limiti che non riesce a superare e subisce delle sconfitte da parte della natura ribelle: il cancro, le malattie cardio-vascolari e i disturbi psichici ne sono gli esempi più evidenti. La vita ridotta alla sua dimensione puramente biologica è sempre stata e continuerà ad essere ben poca cosa di fronte al tempo infinito del mondo e del cosmo. Quindi vivere non è solo una fatto legato alla biologia, anche se non va trascurato, ma è qualcosa di più, qualcosa che riguarda quello che possiamo chiamare l’esistenza umana: l’esistenza umana implica una tensione che parte dalla persona e dalla sua vicenda storica; dalle sue esperienze, i suoi vissuti, le sue scelte , la consapevolezza di sé e del mondo nel quale vive, della coscienza sviluppata nel tempo della propria traiettoria che, come tutte le traiettorie di vita, ha un inizio e una fine. L’esistenza è un cammino lungo, tortuoso insieme dotato di direzione ma anche pieno di imprevisti; vivere si ma ancora meglio esistere cioè sapere che il cammino sarà difficile ma che nonostante questo non perdiamo la meta che perseguiamo. L’inquietudine del domani, l’interrogarsi sulla condizione umana tramite la nostra condizione ci permette di esistere e non solo di vivere; l’inquietudine che produce la ricerca del senso è la vera molla dell’esistere.

Enrico Goussot