Sono particolarmente felice di essere qui tra voi oggi a parlare, o meglio, a tentare di abbozzare un discorso che cerchi di mettere assieme i cardini del pensiero di mio padre sull’educazione e in particolar modo sui cosiddetti BES, che in questo momento storico stanno suscitando un intenso dibattito in pedagogia e non solo. Come pochi sanno, mio padre si è formato innanzitutto come storico e come filosofo. Infatti, gli studi che ha svolto con il dottorato di ricerca europeo hanno fatto leva su questo binomio che lo hanno reso unico anche all’interno della società italiana di pedagogia speciale, stimolando in lui una grande capacità interdisciplinare. L’impostazione dello storico e del filosofo lo ha caratterizzato lungo tutta la sua vita, nel suo lavoro di educatore prima, e nel suo impegno di accademico dopo. Ha indagato con rigore scientifico i temi più complessi della pedagogia speciale, e grazie alla sua attenzione di studioso engagé ha potuto elaborare, insieme alla pratica, diverse teorie e riflessioni di natura pedagogica e antropologica. Questo incontro tra lo storico, il filosofo e l’educatore, insieme alla strutturazione di un profondo ideale di giustizia, di uguaglianza e di libertà, elaborato a partire dalla profonda meditazione di Jean Jacques Rousseau, gli ha consentito quell’attenzione particolare agli ultimi, agli svantaggiati, agli oppressi, quindi ai cosiddetti “speciali”. Il suo impegno come educatore nasce nel liceo scientifico di Charleroi come professore di storia e filosofia e poi a Bologna come educatore e formatore in una cooperativa sociale, la CSAPSA, che si occupa di offrire vari servizi nel campo del sociale. In questa cooperativa per diversi anni ha svolto la sua attività di educatore di comunità per tossicodipendenti, seguendo, inoltre, diversi progetti sull’immigrazione e sulla prostituzione. Ricordo molto bene quando la domenica ci portava a Bologna nel centro di prima accoglienza a familiarizzare con gli immigrati del centro. In questi contesti si è occupato sempre delle persone più svantaggiate, cercando di trovare quegli elementi positivi che potessero portare un cambiamento nelle loro vite. Grazie a questa cooperativa si è cominciato anche ad interessare ai bambini, in particolar modo ai figli di immigrati che nelle scuole italiane faticavano molto nell’apprendimento e nell’inclusione scolastica. Questo suo forte impegno lo ha fatto conoscere anche nel campo accademico bolognese grazie ad Andrea Canevaro con il quale condivideva diversi corsi di formazione. In continuità con il suo impegno di ricercatore universitario prima e Professore Associato dopo, si è interessato con profonda passione al tema della disabilità. Molti dei suoi scritti fanno leva anche sul suo vissuto personale e sulle difficoltà che ha incontrato nell’apprendimento scolastico perché figlio di padre operaio emigrato dalla Francia, e di madre sarta emigrata dal Veneto. Scrive nel libro Pédagogie et Résilience, pubblicato con l’Harmattan in Francia:
Quando ho iniziato a sviluppare dei ritardi nel mio percorso scolastico, ho iniziato a sviluppare un complesso d’inferiorità, perdendo la fiducia in me stesso. Nel frattempo, ho avuto la fortuna di incontrare, alla fine delle elementari, un maestro eccezionale. Si chiamava Walfkaren. Capì il mio stato d’animo e i miei sentimenti e seppe vedere in me il mio potenziale. Questo mi permise di avere un nuovo slancio.
Attraverso l’episodio doloroso della bocciatura, mio padre incontra un maestro che lo capisce e sa scorgere in lui il suo vero potenziale. Aveva compreso che la sua difficoltà nell’imparare a scrivere e a leggere correttamente il francese era dovuta in gran parte alla situazione familiare. Mia nonna, che aveva fatto la quinta elementare in Italia, stava imparando il francese sui libri di mio padre, con tutte le difficoltà del caso. Questo episodio lo pone al centro anche della sua riflessione sui BES, che si arricchisce della sintesi di un pensiero pedagogico maturato lungo tutta la sua vita. Affrontando il discorso scientifico che pretende di dare un nome ai singoli comportamenti dei bambini e dei ragazzi, riprendeva il pensiero di Vygotskij che sosteneva
Il concetto di norma fa parte delle idee scientifiche più complesse e vaghe. Nella realtà non esiste nessuna norma, ma si incontra una quantità infinita di molteplici variazioni, di deviazioni da essa e spesso è molto difficile stabilire dove esse superino i limiti oltre i quali inizia già il campo dell’anormale.
Il tentativo di dare forzatamente un nome e un cognome a un determinato comportamento vuole marginalizzare, se non addirittura escludere la pedagogia. E questo tentativo per mio padre è assai pericoloso perché si è insinuato anche nella scuola, portando al suo interno il paradigma della diagnosi a tutti i costi. E allora è venuto meno il mi prendo cura di qualcuno, come sosteneva Don Lorenzo Milani, in favore di un adattamento funzionale e della cura di una patologia che il maestro e l’insegnante non riescono a trattare. Quindi stiamo assistendo, secondo mio padre e Philippe Meirieu, a un cambiamento antropologico della scuola sul discorso educativo. La scuola è stata colonizzata dallo sguardo clinico-terapeutico e l’insegnante è visto come operatore che esegue diagnosi o che invia ragazzi “malati” dal medico. L’alunno, pertanto è visto come portatore di disturbi e problemi e non come soggetto, come protagonista, come persona umana di cui prendersene cura. L’alunno diventa un oggetto passivo al quale deve essere erogato un servizio, di cui l’alunno è un fruitore. La didattica diventa una tecnica, una sorta di ricettario da applicare più o meno meccanicamente e la relazione scompare quasi del tutto. La pedagogia, quindi, assume un ruolo sempre più marginale, mentre la psicologia e la neuropsichiatria sembrano trovare terreno fertile sia tra gli insegnanti che tra i genitori. Così facendo la scuola abdica, tuttavia, alla sua missione di educare. Educare implica un impegno a prendersi cura dell’altro, cercando di comprendere le difficoltà di chi non riesce a stare al passo degli altri. Educare significa anche che l’intervento educativo non produce frutti nell’immediato, nella consapevolezza di una missione per la quale bisogna imparare ad aspettare e a spendere le proprie energie con amore e dedizione. Nel contesto odierno, spesso gli alunni vengono categorizzati e classificati come singoli, predeterminando una traiettoria sulla base di un paradigma e di uno sguardo predefinito che finisce con l’inferiorizzare la persona, dando una copertura concettuale e pseudoscientifica alla diseguaglianza in atto nella scuola. Nasce, quindi una logica della differenza che è l’opposto del riconoscimento delle differenze che si basa sul principio di uguaglianza. Il compito della scuola, secondo mio padre, deve essere quello di rimuovere tutti gli ostacoli che producono svantaggio e impediscono l’eguaglianza delle opportunità nell’accesso ai saperi e alle conoscenze. Ma per fare questo è importante rimettere al centro i fondamenti e i fautori delle cosiddette pedagogie attive: Jean-Jacques Rousseau in primis, che considera il maestro filosofico e pedagogico della strutturazione delle sue idee e della sua visione della vita, Heinrich Pestalozzi, Jean Marc Itard, Maria Montessori, Freinet, Vygotskij, Decroly. Fare, quindi della didattica un processo vivo, all’interno del quale il docente funga da mediatore attivo e da autentico facilitatore degli apprendimenti, osservando e comprendendo innanzitutto. La vera rivoluzione di pensiero sta nel capire che l’educazione è un processo sociale e la scuola stessa riflette tutte le dinamiche sociali e culturali della società. Oggi si parla di crisi dell’educazione e dei suoi luoghi tradizionali (scuola e famiglia), gli adulti sembrano essersi dati alla fuga, i rapporti sociali sono frammentati in favore di un individualismo dilagante e di un capitalismo pulsionale dell’usa e getta. La conseguenza è la svalorizzazione di tutto quello che riguarda formazione, scuola e cultura, attraverso l’introduzione dello sguardo diagnostico come ricetta pronta all’uso. E’ proprio in questo contesto sociale molto frammentato che si fa strada la categorizzazione del diverso. Secondo mio padre
Quando si parla di BES bisogna essere molto prudenti; se parliamo di bisogni educativi speciali si tratta di soggetti che hanno bisogno di mediazioni particolari ( contesti facilitanti, accompagnamenti adeguati) e di mediatori specifici (ausili e facilitazioni ambientali rispetto alle barriere) per realizzarsi pienamente sul piano umano. Ma vi è un aspetto sul quale interrogarsi: in che misura non vi è il rischio di vedere il campo educativo invaso dal campo clinico.
Pensiamo ai tanti malesseri che i bambini vivono oggi e che sono il riflesso di questa società che non solo ha abdicato alla sua funzione di comunità educante, ma ha anche marginalizzato e classificato in nome di una falsa necessità del “pronto intervento”. Una società dove i bambini esprimono come possono la crescente disumanizzazione degli adulti. Pensiamo ai problemi delle famiglie e alla debolezza del ruolo dei genitori, che spesso di fronte ai propri figli non sono degli adulti, ma delle figure instabili e fonti di insicurezza. Pensiamo al problema dell’uso eccessivo dei supporti tecnologici che finiscono per rinchiudere i bambini in una gabbia emozionale. E allora, se la nostra società si è costruita un modello dove non c’è più la cura dell’altro, perché costa fatica, le situazioni difficili vengono gestite con la categorizzazione e la classificazione, demandando ad altri la gestione dei problemi. E’ preoccupante l’aumento costante dei bambini definiti “affetti da Adhd”, o da “Dsa”. E in questa logica appare inquietante l’introduzione di termini medici come “diagnosi”, “patologia”, “disturbo” che non fanno altro che innalzare un muro tra l’insegnante e il ragazzo. E questo non fa altro che stimolare il docente a costruire delle rappresentazioni mentali discriminanti verso gli alunni. La sfida dell’educatore e dell’insegnante, deve invece focalizzare l’attenzione sul riconoscimento delle differenze di ogni alunno inserito in un contesto sociale che abbia come fondamento l’uguaglianza. E allora la sfida vera è quella del processo inclusivo, che fornisce la parità tra gli attori, considerando ciascuno come portatore di storie, linguaggi, culture che facilitano un processo collettivo e individuale di tipo co-educativo. In questa prospettiva la scuola diventa una comunità aperta che educa e a sua volta viene educata nel suo rapporto con gli altri attori del territorio. Secondo mio padre bisogna puntare sull’apertura di spazi di cittadinanza nuova, in cui tutti apprendono: ascolto comprensivo, accoglienza, meditazioni attive, equità. Questo modo co-educativo è alla base di quella che mio padre definisce pedagogia speciale delle mediazioni, ossia una pedagogia che mette al centro percorsi personalizzati, misure compensative e dispensative per favorire l’espressione delle potenzialità di ognuno, quindi anche dell’alunno disabile. Di fronte alla categorizzazione dei BES
colpisce che non ci si ponga mai dal punto di vista del bambino con difficoltà, e che non venga mai in mente di cogliere queste difficoltà come un’occasione per attivare processi nuovi, aperti all’emancipazione e alla promozione dell’autonomia, anche attraverso una gestione pedagogica del gruppo classe.
E la domanda che pone in essere mio padre è la seguente:
Perché non si fa mai riferimento a tutto quello che ha prodotto, come esperienze inclusive, co-educative e co-evolutive, il movimento dell’educazione nuova e la corrente delle pedagogie attive?
Forse la risposta potrebbe stare nel riappropriarsi concretamente della pedagogia, sia in aula e a casa, ma è chiaro che per fare questo bisogna che ogni educatore, genitori in primis, vogliano riappropriarsi del loro ruolo nella società. Demandare a un medico la gestione di un problema che non è medico significa voler creare nel bambino un complesso d’inferiorità e un marchio che si porterà per tutta la vita. Se a un bambino si fa notare ogni giorno che è un BES finirà per credere di esserlo davvero! Lo sguardo medico sull’educazione ha svilito l’azione educativa e ha creato delle categorie discriminanti. Mio padre ha cercato di stimolare in ogni dove il dibattito su questi temi così spinosi e attuali, mettendo in guardia la nostra società dal rischio delle crescenti diseguaglianze. E lo ha fatto con quel rigore appassionato che caratterizza gli storici, riuscendo a ricostruire un tracciato lungo e denso di esperienze e modelli, ma anche con quell’amore profondo per l’umanità che ha sempre caratterizzato i filosofi e i pensatori di ogni tempo, conservando una fiducia radicata nelle possibilità degli esseri umani di creare una società più giusta. E per concludere questa breve e parziale trattazione sulla vita professionale di mio padre, di cui ho cercato di esplicitarne una piccolissima parte, e per la quale mi sento profondamente onorato di essere, per quel poco che riesco, la sua voce, mi piace concludere con le sue riflessioni su una poesia dell’educatore francese Fernand Deligny:
Seguire il disegno , seguire le tracce, lasciarsi trasportare dall’altro, passare sulla superficie per cogliere i suoi colori senza pretendere di vedere il fondale. Quello che diceva Deligny vale non solo per i ragazzi chiamati autistici ma per tanti ragazzi; la ricerca del contatto è la cosa più complicata di questo mondo, spesso non ci riusciamo, non solo con l’altro ma anche con noi stessi. Non riusciamo a distinguere i colori del nostro mondo interiore , a captarli, a sentirli, non riusciamo ad ascoltarci respirare, ad ascoltare il ritmo vibrante della nostra anima addormentata. Non ci poniamo neanche più le domande sul grande mistero dell’essere, dell’esistere, del nostro esistere. Nel nostro lavoro e nella nostra vita, ci si rende conto che più si è esperti più si tende a dimenticare la vecchia pratica socratica della maieutica perché l’essere specialistico implica la certezza del metodo e della tecnica; metodo e tecnica diagnostica e quindi anche educativa, terapeutica ecc…Deligny ammetteva non comprendere i ragazzi autistici, ma si comportava come l’artista di fronte al mistero e all’enigma di un dipinto o di un affresco. Interpretava il fare ‘strano’ di questi esseri come un fare, un fare di cui non si vede l’utilità , ma quante opere d’arte sono il prodotto di un fare considerato poco utile? Personalmente mi è sempre sembrato strano il comportamento scientifico degli esperti che tendono a sostituire alle persone i loro ‘ismi’ , categorie definitive, a torturarsi nella misura in cui non riescono più ad ascoltare i colori del loro mondo interiore a contatto con quello dell’altro. Sono spesso in ammirazione di fronte a chi ha delle certezze di fronte ad un ragazzo o una ragazza che ha la sfrontatezza di essere altro; mi tocca spesso a pensare, ripensare e soprattutto ad interrogare quello che provo. Non è per niente semplice; metto nel conto l’incertezza e anche talvolta il sentimento d’impotenza di fronte alla mia non comprensione dell’altro. Un po’ come il filosofo Gabriel Marcel penso che siamo in un ‘mondo spezzato’ , spezzato sul piano poetico e spirituale. Mi rendo conto che la poesia e lo spirito possono entrarci molto poco con le certezze scientifiche anche se sarei cauto nel liquidare tutto ciò come le esternazioni di un sognatore che non ha i piedi per terra.
Pescara 17 maggio 2016
Enrico Goussot